Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali - Tesi di Dottorato

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Questa collezione raccoglie le Tesi di Dottorato afferenti al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università della Calabria.

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    Oppression and resistance of racialized migrant farmworkers in the context of agricultural racial capitalism : the case of west african farmworkers in the province of Foggia (Italy)
    (Università della Calabria, 2024-09-09) Macciani, Camilla; Raniolo, Francesco; Corrado, Alessandra
    The present dissertation intends contributing to the rich debate investigating migrant labor exploitation and resistance in the context of industrial agriculture by looking at the issue through the theoretical perspective of racial capitalism. Adopting this theoretical perspective appears to be fruitful in order to better frame the experience of oppression and resistance of racialized migrant farmworkers. Indeed, while labor studies have often tended adopting a race-blind approach, considering migrant workers as a homogeneous category and race merely as a tool of class division, building on the contribution of theorists of racial capitalism allows to better frame the experience of racialized migrant farmworkers in the context of industrial agriculture, looking at the racial-colonial oppression not as a mere element of the superstructure but rather as integral to the oppression of workers in the context of capitalism. Building on four-years of research developed adopting a militant ethnographic approach informed by decolonial methodologies, the dissertation focuses on exploring the experience of West African migrant farmworkers living in rural informal settlements situated in the province of Foggia. The analysis highlights how the oppression experienced by West African migrant farmworkers in the province of Foggia can be explored as being at the intersection of four processes: ghettoization, exploitation, illegalization and racialization. These processes appear to be central both in defining their experience of oppression and in motivating their struggle for liberation. In addition, the ambivalent role of NGOs operating in the area is explored, as representing an integral element to the reproduction of systems of oppression through policies aimed at preventing racialized migrant farmworkers fully achieving their right to self-determination, while at the same time avoiding conflict with institutions. Nevertheless, despite the increasing
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    Le parole e le cose della prostituzione
    (Università della Calabria, 2020) Cariati, Gaëlle; Jedlowski, Paolo; Vingelli, Giovanna
    Nel saggio Prostitution, quel est le problème , il ricercatore francese Lilian Mathieu si pone l’obiettivo di discutere con gli strumenti della filosofia e della sociologia la prostituzione. Il punto di partenza della riflessione è il registrare, da un lato, lo sforzo condotto da alcuni studiosi per dimostrare l’illegittimità o l’immoralità o l’inammissibilità della prostituzione, e dall’altro lo sforzo di altri studiosi, le cui voci si sono levate «pour défendre la légitimité de son exercice et exiger sa pleine reconnaissance» (Mathieu 2016, p. 10). Il problema che si pone Mathieu, il cosiddetto ‘problema della prostituzione’, sarebbe di tranciare il nodo gordiano del dibattito: trovare cioè chi ha ragione, coloro che considerano la prostituzione come immorale, illegittima, intollerabile (si noti che ognuno di questi aggettivi evoca questioni differenti e non trattabili come una sola), oppure coloro che la ritengono al contrario ammissibile (e anche questa ammissibilità andrebbe declinata). Nelle pagine che seguono l’introduzione, Mathieu sviluppa la sua argomentazione: «trois pistes principales ont été envisagées, celles du désir, du consentement et de la vente du corps» (Mathieu 2016, p. 130). Il risultato dello sforzo di Mathieu è il seguente: «l’exercice n’as pas permis de départager laquelle de ces pistes est la mieux à même d’apporter une réponse définitive à la question posée [...] force est de reconnaître qu’en regard de son objectif de départ, notre enquête aboutit à un échec» (ivi). Segue specificazione: «il a été impossible de conquérir cette espèce de Graal des réflexions sur la prostitution qu’est l’identification d’une caractéristique qui légitimerait, en tout temps et tout lieu, de lui opposer un refus définitif» (ivi). Allo stesso tempo: «cet échec n’en est pas un car il peut aisément être retourné. La prostitution ne pose pas un mais une série de problèmes différents qui, en outre, ne lui sont pas spécifiques» (ivi). In sintesi, Mathieu qui sta affermando che il suo tentativo di dirimere la questione della ammissibilità o inammissibilità (aggettivi qui usati in maniera consapevolmente generica) della prostituzione tramite una argomentazione filosofica che ha attinto anche alle «connaissances issues des sciences sociales» (ibidem, p. 11) ha fallito, in quanto: 1) non si è trovato un elemento che possa caratterizzare la prostituzione, cioè distinguerla in maniera non ambigua da altro che non sia, quindi, logicamente, prostituzione (e ciò per Mathieu, ha significato non riuscire a confermare argomenti che considerino la prostituzione inammissibile). Inoltre, (e ciò discende da quanto appena affermato): 2) il dibattito sulla prostituzione è costituito non una, ma da una serie di questioni , differenti tra loro, e che non sono specifiche di questo dibattito nel senso che esse possono essere poste anche in relazione anche ad altri temi, e potrebbero esistere anche se non esistesse il dibattito sulla prostituzione. Questa posizione sulla prostituzione, cioè il ritenere che la prostituzione non sia definibile, individuabile in maniera non ambigua, ha delle conseguenze importanti. Infatti, se un fenomeno non può essere circoscritto, un oggetto non può essere individuato, è impossibile (come ritiene lo stesso Mathieu) costruire un’argomentazione che conduca a evidenziarne i singoli aspetti, e a misurare questi ultimi adottando un criterio (qualunque criterio esso sia, di ammissibilità, di tollerabilità, di legittimità o qualunque altro criterio si voglia prendere in considerazione). Se si adotta la posizione di Mathieu, ne consegue che non sia possibile decidere chi abbia ragione sul dibattito sulla prostituzione, inteso come dibattito che affronta la questione della conformità o meno degli elementi che costituiscono il fenomeno prostituzione a criteri di ammissibilità, tollerabilità etc. Lo stesso dibattito non sarebbe possibile, in quanto tali elementi non sarebbero individuabili, e potrebbe esistere solo nella forma di un dibattito sull’esistenza o meno del contenuto della parola ‘prostituzione’, e su quale forma questo contenuto abbia. Assumendo che la posizione di Mathieu sia corretta, all’atto dell’indagare l’oggetto prostituzione, nella letteratura scientifica, – ma anche nel dibattito politico, nel dibattito dell’opinione pubblica a vari livelli, ci si aspetterebbe quindi di trovare un dibattito tutto incentrato sul senso da dare al termine ‘prostituzione’. Laddove alcuni (forse) concorderebbero con Mathieu nell’evidenziare la difficoltà o impossibilità nel definire il termine, altri sarebbero contrari a tale posizione e proporrebbero forse delle definizioni, ma comunque rispondendo alle perplessità evidenziate da Mathieu. Oppure, ci si potrebbe aspettare che il dibattito sulla prostituzione sia addirittura inesistente. Invece, le cose non sono affatto così. Secondo quanto riferito da molti osservatori, infatti, il dibattito sulla prostituzione, nel contesto delle democrazie occidentali, non solo è esistente, di lunga data, rovente, ma anche quasi esclusivamente affrontato nella forma della conformità o meno di ciò che è (o sarebbe) la ‘prostituzione’ rispetto a vari criteri (di ammissibilità, tollerabilità, legittimità etc.), e ciò è vero sia quando il dibattito avvenga tra soggetti che definiremmo ‘accademici’ (ricercatori, studiosi), sia nel dibattito politico, tra soggetti ‘decisori’, o ‘regolatori’, o ‘legislatori’, sia nel dibattito pubblico, cioè tra soggetti che non hanno altra qualifica se non il poter esprimere la propria opinione su un determinato argomento in un contesto in cui questa opinione ha modo di essere espressa e ascoltata (Mathieu 2004, Miriam 2005, Kantola e Squires 2004, Ditmore 2006, Outshoorn 2009). Non solo: di norma, pochi tra coloro che affrontano questo argomento chiariscono, preliminarmente all’esposizione della propria posizione, cosa si debba intendere per ‘prostituzione’ e perché. C’è, allora, da ritenere che Mathieu abbia sbagliato? Sembra ragionevole condividere la posizione di Lilian Mathieu sulla difficoltà di definire l’oggetto prostituzione. Percorrendo una strada autonoma, infatti, è possibile giungere alle medesime conclusioni. La presente trattazione intende pertanto muovere dall’affermazione di Mathieu, assumendola come punto di partenza di una riflessione sul tema della prostituzione. L’impossibilità di definire la prostituzione sarà, in una prima fase, messa a confronto con le ricostruzioni teoriche della prostituzione presenti nella letteratura, le quali saranno discusse criticamente e presentate in una tipologia dal valore espositivo. In seconda battuta, saranno prese in considerazione le rappresentazioni empiriche della prostituzione, sempre nell’ottica di sfidare criticamente la tesi della indefinibilità della prostituzione. Si giungerà così ad alcuni risultati: verranno messi in evidenza i molteplici significati attribuiti alla prostituzione nella letteratura, e la multiformità associata alla prostituzione nelle ricerche empiriche. Ciò condurrà a prendere in considerazione l’ipotesi che la prostituzione non abbia un contenuto proprio (in questo senso sarebbe indefinibile). Si contestualizzerà, dunque, tale affermazione rispetto a un itinerario storico-filosofico di contributi che condurrà a evidenziare l’opposizione tra un approccio ‘oggettivista’ e un approccio ‘soggettivista’ alla questione del conoscere la realtà. Tale opposizione sarà discussa in generale, e in particolare in relazione alla questione del conoscere il contenuto della prostituzione. Nel corso della discussione, seguendo le tracce di alcune riflessioni presenti nella letteratura, sarà formulata una proposta originale rispetto alla questione del definire la prostituzione. Tale proposta consiste nel riconoscere i limiti rispettivi di un approccio ‘oggettivo’ e ‘soggettivo’ alla questione della conoscenza della realtà, nel valorizzare le rispettive caratteristiche (intese come opportunità e come limiti) di ognuno dei due approcci, e nel concludere che, come suggerito dalla letteratura, entrambi siano necessari nello sforzo di ‘afferrare’ un dato contenuto. Sempre sulla scorta della letteratura, sarà suggerito che l’opposizione tra i due approcci possa essere messa in discussione, non solo nel senso di una alternanza fra approcci o compensazione reciproca, ma valorizzando la possibilità di un superamento che valorizzi la soggettività specifica. Questo, per quanto riguarda il tentativo di definire la prostituzione, significa: riconoscere i rispettivi limiti delle rappresentazioni oggettive e soggettive della prostituzione; muovere nel senso di ancorare il processo di definizione della prostituzione alla specificità dell’esperienza soggettiva, di tutti i soggetti coinvolti nella prostituzione simultaneamente. La presente trattazione ha il proprio senso scientifico nell’osservazione che, né nella letteratura, né nel dibattito sulla prostituzione – pure abbondanti quanto a contributi e frequenza – esistano un catalogo critico delle rappresentazioni della prostituzione che abbia anche una certa ampiezza, e soprattutto una discussione teorica approfondita (cioè che ragioni sul perché) della possibilità teorica di definire la prostituzione, nonostante questa questione venga ripetutamente menzionata nella letteratura. Il presente lavoro si presenta come un tentativo di colmare questi vuoti. I limiti del presente lavoro si possono ravvisare, innanzitutto, nelle scelte effettuate riguardo alla letteratura, e ai riferimenti presi in considerazione come materiale di riflessione. L’operare tali scelte è sembrato necessario allo scopo, perseguito dalla presente trattazione, di presentare una riflessione da un lato critica, dall’altro fruibile, sul tema del contenuto della parola prostituzione. Allo stesso tempo, l’occorrenza di una selezione è sempre puntualmente indicata (e motivata) nel presente lavoro. In secondo luogo, si è scelto di dare a questa trattazione un taglio esclusivamente teorico. Questa scelta è stata suggerita, da un lato, dall’obiettivo di sviluppare una riflessione organica e coerente su una materia, che, nella letteratura, non è quasi per nulla sviluppata, e, pertanto, pone la necessità di chiarimenti linguistici e concettuali; e, da un altro lato, dall’obiettivo di evidenziare, e presentare in maniera il più possibile chiara, la proposta originale che è contenuta nel presente lavoro. Tale scelta ovviamente non nega il valore di un confronto serrato tra riflessione teorica e ricerche empiriche su un dato oggetto di studio, e quindi anche sul tema affrontato qui. Infatti, da un lato, la presente trattazione non ignora il versante delle ricerche empiriche, ma lo incorpora nella forma di una riflessione teorica su di esso, dall’altro viene puntualmente affermata l’opportunità di riferirsi al dato empirico, e anzi questa affermazione è un punto fondamentale delle conclusioni del presente lavoro. Le conclusioni di questa riflessione teorica aprono alla ricerca empirica come conseguenza logica, da più punti di vista: non solo, infatti, si auspica che la ricerca empirica prenda in considerazione la proposta scaturente da tale riflessione come ipotesi, nell’ottica di un generale rapporto circolare tra riflessione teorica e ricerca empirica, ma, poiché tale proposta, come si vedrà, ha una natura sostanzialmente metodologica, cioè si riferisce alla questione del conoscere la prostituzione, la ricerca empirica ne costituisce la conseguenza intrinseca, ontologica. Infine, le conclusioni alle quali la presente trattazione giunge, nella loro specificità e concretezza, nei fatti, culminano nel concetto che il terreno empirico sia il luogo privilegiato della possibilità di definire la prostituzione, e ciò ulteriormente rafforza il legame concettuale con possibili successive ricerche empiriche. Al riguardo di possibili tentativi di operativizzare le riflessioni oggetto di questa trattazione, è possibile riscontrare, oltre alla già menzionata discussione metodologica di ordine generale, anche delle notazioni riguardo all’‘operativizzabilità’ della proposta che è presentata: soprattutto, ne vengono evidenziati alcuni vincoli fondamentali, oltre, come si è detto, all’opportunità del tentativo. Ulteriori considerazioni possono essere fatte sul tema, al fine di indicare anche possibili, concreti, sviluppi futuri del presente lavoro: rispetto alla proposta specifica che sarà esposta nella trattazione, appare particolarmente pertinente un approccio quali-quantitativo integrato informato alla metodologia menzionata, nella letteratura, con l’espressione Mixed Method Research . Quest’ultima, infatti, appare al contempo valorizzare e mettere a confronto l’approccio ‘oggettivo’ e ‘soggettivo’ al problema della conoscenza di un dato tema, e sembra pertanto adeguata a riflettere le premesse teoriche contenute nel presente lavoro. Data, infine, l’importanza delle rappresentazioni come grumi in cui si rapprende il tentativo di conoscere un dato tema (presentata e discussa nella presente trattazione), sembra opportuno suggerire che l’approccio empirico che dia seguito a ciò che qui è contenuto come proposta, sia sensibile alle questioni poste dall’uso del linguaggio (anch’esse in questo lavoro, seppur non approfonditamente, indicate), sia in fase di progettazione, sia in fase di concretizzazione, sia in fase di restituzione dei risultati della ricerca.
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    I processi di sviluppo rurale in Albania e il ruolo delle politiche e delle pratiche di cooperazione
    (Università della Calabria, 2023-01-05) Doka, Dorjan; Jedlowski, Paolo; Vitale, Annamaria
    Il lavoro che segue è frutto di una ricerca condotta tra Italia e Albania. La decisione di affrontare questo argomento scaturisce, in primis, dall’interesse personale nei confronti della mia terra, sulla quale ho la possibilità di posare uno sguardo nuovo, frutto di questo interessante percorso di studi. È un lavoro impreziosito dall’esperienza sul campo. Coniugando, quindi, le competenze acquisite in questi anni con il lavoro della ricerca, ho deciso di sfruttare quella che è stata la mia osservazione partecipante in loco e territorio. A catturare il mio interesse è stato il programma IPARD II, una vera e propria novità per l’Albania, per la prima volta interessata da una programmazione di respiro europeo. In questi ultimi anni, durante i miei vari lunghi soggiorni e ricerche in lungo e largo nelle città e nelle zone rurali della mia terra, ho potuto costatare in prima persona il grande salto di qualità che ha fatto l’agricoltura in Albania. Un percorso inciso da grandi sforzi, lacune, errori, ma soprattutto volontà di recuperare e fare, di inventarsi e di andare avanti, perché no, di pari passo con gli altri paesi vicini della tanta amata Europa. Partendo da questo è naturale chiedersi quanto un Paese come l’Albania sia preparato a recepire le novità introdotte dai vari programmi e i sostegni e quali potrebbero essere i punti critici sia in fase di programmazione che di attuazione. L’altra domanda cui il lavoro cerca di rispondere riguarda le reali opportunità e benefici di cui l’Albania sta usufruendo. Partendo, dal primo capitolo, si sofferma sull’avvicendarsi degli elementi che hanno caratterizzato la storia del contesto rurale albanese. Lo stato attuale dell’agricoltura albanese si sta delineando, cercando di percorrere le strade verso la completa modernizzazione dei paesi europei. Per comprendere meglio il “caos” del settore agricolo dei primi anni ’90, si è partiti dal dopoguerra in Albania, poi alla totale collettivizzazione delle terre tra gli anni ’50-’60, alla caduta del regime, e di nuovo, alla ridistribuzione agli agricoltori e alla privatizzazione delle imprese di Stato; quindi, alla destrutturazione del sistema dallo Stato al mercato. La situazione di evidente squilibrio nella proprietà della terra che, prima del conflitto mondiale, era gestita ancora in parte da relazioni di produzione quasi feudali, continua a persistere dopo il crollo del regime comunista quando si assiste ad uno smantellamento che politiche avvicendatesi negli anni – dimostratesi, poi, inefficienti. In questa parte la ricerca è avvalorata dalla testimonianza di Pellumb Maksutaj, ex dirigente di Cooperativa agricola, durante il periodo che va dal 1970 al 1985, in pieno regime di collettivizzazione. La sua intervista offre uno spunto di riflessione sulle reali condizioni di vita ai tempi della collettivizzazione. Attraverso l’analisi delle politiche post-regime, si metteranno a confronto le difficoltà e le diverse modalità di approccio che hanno portato alla pre adesione. Il Paese ha dovuto, nel corso di questi anni, vivere fenomeni di esodo, sia verso l’estero sia interni (dalle aree rurali a quelle urbane), con pesanti conseguenze sul settore agricolo. Conseguenze che le politiche hanno fatto fatica a fronteggiare, come si evince dall’analisi condotta. Il secondo Capitolo parla delle evoluzioni delle politiche rurali dell’Unione Europea, si toccano i cambiamenti salienti avvenuti fino al 2020, tra errori ed esperienze che hanno delineato i notevoli miglioramenti delle politiche. Argomenti dai quali è d’obbligo partire per analizzare il contesto rurale albanese di ieri e di oggi, in vista dell’auspicato ingresso tra i paesi UE di domani. Parallelamente, infatti, alle evoluzioni delle politiche comuni, ci si sofferma sull’avvicendarsi degli elementi che hanno caratterizzato la storia del contesto rurale Albanese e la sua prospettiva europea. Durante questo capitolo si analizzano anche i primi aiuti della Comunità Europea e dei donatori internazionali dagli gli anni 90 in poi, e il loro impatto nell’ambito dello sviluppo rurale, economico e sociale del paese. Da qui si giunge al terzo capitolo, una breve parentesi che cerca di affrontare il periodo di transizione degli anni ’90, quando iniziava una nuova fase di trasformazioni sociali che sarebbero succedute da li a poco nel piccolo Paese isolato. Il settore agricolo si trovava davanti a scelte radicali simili a 45 anni prima, in un clima di gran confusione e non pronto al nuovo che stava arrivando. L’agricoltura albanese doveva uscire dal precedente sistema centralizzato economico, sociale e collettivista e adeguarsi all’inizio di una nuova era: quella della democrazia e dell’economia di mercato. Questo necessario passaggio è stato caratterizzato dalla crisi sociale ed economica e dall’attuazione di riforme strutturali in tutti i settori dell’economia. Sono gli anni delle privatizzazioni di massa, dei beni e delle piccole imprese in settori come il commercio, artigianato e servizi. Si da avvio alla liberalizzazione degli scambi e dei prezzi dei prodotti agricoli, alla libera circolazione delle persone che porterà verso l’esodo dalle zone rurali alle città e le zone di pianura (L. Vanini 1993). Durante questo periodo ci sono state varie riforme e strategie che hanno accompagnato l’assestamento del settore agricolo. Si parte con la riforma fondiaria del 1991, nota anche come la Legge sulla terra (Land Law) n. 7501 del 19 luglio 1991. La Riforma scaturita da questa legge è stata la più progressista e la più decisiva, per il settore agricolo e per l’economia nel suo complesso, poiché ha sancito la proprietà del terreno e ha avuto un’influenza molto importante sull’agricoltura nel suo complesso. L’azione più importante della Riforma Agraria è stata la privatizzazione delle terre e questo processo nel suo complesso ha riaperto vecchie ferite e conflitti sociali, tra gli ex proprietari e coloro che acquisivano la terra grazie alla legge. Conflitti di questo genere prevalgono ancora in alcune zone dell’Albania. La legge di privatizzazione delle terre delle cooperative agricole del 1991 e la loro distribuzione alle famiglie di tutti gli aventi diritto (piccoli proprietari, operai e impiegati delle strutture collettive) hanno cambiato radicalmente la situazione e creato - in senso lato e in senso stretto - un nuovo paesaggio. Altri passaggi degni di nota sono anche le leggi fondiarie del 1993 e del 1995 per la compensazione degli ex proprietari e la vendita, approvate contestualmente il 21 aprile 1991 e il 27 giugno 1995. Queste norme miravano a regolare legalmente il trasferimento (acquisto e vendita) della proprietà di terreni agricoli, prati e pascoli, ma tale era la crisi che oggi sembra inverosimile la coincidenza tra l'adozione di una legge che dava voce e dignità agli ex proprietari e al massiccio esodo rurale con conseguente inutilizzo dei terreni agricoli. Una breve riflessione si è fatta anche nei confronti dell’evoluzione delle politiche di sviluppo rurale fino all’incontro con le politiche europee, un arco temporale lungo di dieci anni (1994-2014). Ad onor del vero, le Politiche di sviluppo rurale, in particolare durante i primi anni di transizione, sono state limitate, ma il sostegno delle istituzioni internazionali e dei progetti di sviluppo sembra abbia avuto un impatto significativo sull’orientamento delle decisioni politiche, attraverso documenti di indirizzo e raccomandazioni formulate nelle relazioni dei vari interventi esteri e attraverso il sostegno diretto nella formulazione di leggi e regolamenti, come ad esempio il documento preparato da USAID - United States Agency for International Development, a sostegno del Ministero dell’Agricoltura nel 1994 che riguarda l’orientamento delle politiche per lo Sviluppo agricolo, con priorità principali la valorizzazione dei terreni agricoli e la crescita della produzione, nonché garantire una quantità sufficiente di cibo per la popolazione rurale ( Usaid, 1998). Un’altra tappa importante riguarda la Strategia Verde che prevedeva un periodo a medio termine (1998 - 2005) e mirava a mettere le basi per un settore agricolo sostenibile, a migliorare la produttività dei terreni agricoli con un’impostazione economica e ambientale sostenibile e a raggiungere un livello soddisfacente di vita per la popolazione delle zone rurali, in particolare attraverso l’aumento dei redditi di coloro che lavorano nel settore agricolo e il soddisfacimento dei bisogni alimentari sia a livello famigliare sia nazionale (Shehu Diana, 2005). Lo sviluppo rurale durante questo periodo è stato visto generalmente come un elemento della politica di sviluppo agricolo e di conseguenza l’assegnazione dei fondi era orientata principalmente verso l’aumento della produttività agricola e per garantire la sicurezza alimentare. Come parte di questo processo è stata predisposta ed approvata la strategia intersettoriale per lo sviluppo rurale ISARD che prevede le priorità della politica di sviluppo rurale dell’Albania per il periodo 2007-2013. Nel quarto Capitolo protagonista è l’Albania odierna. Attraverso dati e statistiche si offre un quadro generale sul contesto e le politiche di preadesione per passare, poi, nello specifico all’economia rurale e alle problematiche ad essa connesse. Su queste basi si fonde l’intera programmazione IPARD che si approfondisce in questo capitolo. Partendo dalla definizione di IPARD: Instrument for Pre-accession for Rural Development, importante strumento di preadesione cui i Paesi candidati potranno attingere, ho voluto analizzare la fase di programmazione, le misure previste, per passare poi alla parte operativa e, dunque, alla fase di attuazione con i risultati precisi presi ufficialmente per ogni misura finanziata. Questa parte comprende, inoltre, un’intervista ad un beneficiario di questo importante programma, Misir Haxhiu, con il quale ho avuto la possibilità di interagire personalmente. Attraverso delle osservazioni sul campo, combinate con un’analisi critica del programma, proverò a mettere in evidenza le opportunità e le criticità dell’intervento in questione, per meglio comprendere la direzione che le politiche di sviluppo dovrebbero intraprendere in un territorio difficile come quello albanese. La quinta e ultima parte si concentra sulla storia della Cooperazione Italiana in Albania, sui settori degli interventi e i diversi progetti in corso. Inoltre, si riporta un esempio di buona cooperazione concretizzatasi nella reale promozione di uno sviluppo dal basso. Si tratta dell’esperienza del progetto di Vis Albania e del Cesvi che ha catturato la mia attenzione a partire dalla zone rurale scelte, una al sud e l’altra al nord e per le modalità di approccio delle Onlus che ne ha fatto sede principale. Il progetto ha cercato di rendere le due aree progettuali economicamente competitive, attraverso la diversificazione ed il rafforzamento delle attività produttive, il miglioramento dell’offerta agro-turistica, la partecipazione attiva dei beneficiari nei processi di sviluppo e nella creazione di una rete di comunicazioni e scambi tra le comunità locali. Lo studio del progetto e del loro lavoro svolto è rinforzato dalle interviste a Giorgio Ponti, capo progetto, e rappresentante legale Cesvi e Anna Carboni, project manager VIS in Albania. Le loro testimonianze offrono uno sguardo dal basso per meglio comprendere l’efficacia concreta dell’intervento. In quest’ultimo capitolo che, dopo aver analizzato territorio, testimonianze, approcci, politiche e programmazioni, cerco di rispondere alla domanda più importante che guida la ricerca: Quale sviluppo possibile per l’Albania?
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    Las monedas sociales : ripensare la questione della moneta alla luce delle crisi del nostro tempo
    (Università della Calabria, 2021-07-28) Toti, Cristina; Jedlowski, Paolo; Lucarelli, Stefano; Orzi, Ricardo
    La presente tesi indaga la possibilità che esistano circuiti, che promuovono strumenti monetari e finanziari, nati da istanze bottom-up, capaci di ridefinire le “regole del gioco” socio-economico. Il metodo di ricerca adottato è prevalentemente etnografico. L'attenzione è posta in particolare su due monedas sociales - il Chipico, istituito in seno alla Chipica, cooperativa de trabajo con sede a Mendoza e il Puma, istituito all’interno della Red Puma, con sede a Siviglia - e al contesto in cui sono state istituite ed in cui circolano, soffermandosi su alcune dimensioni che lo contraddistinguono: socioculturale, economica, politico-organizzativa, ecologica e formativa. Il metodo di ricerca etnografico è particolarmente adatto a cogliere le interrelazioni fra le concezioni della moneta che caratterizzano le due esperienze e gli elementi del modello di riproduzione sociale sperimentato su piccola scala (il quale rinvia a una gamma estesa di significati, di istanze e di pratiche socio-economiche e politiche). La prima parte della ricerca viene dedicata a ricondurre il tema delle monedas sociales nella più vasta riflessione che concerne la questione della moneta. Qui vengono definite sia la cornice concettuale, che l’impalcatura teorica del lavoro. L’esplorazione di sub-questioni quali l’origine della moneta, la sua natura e la questione della sovranità monetaria hanno permesso di far emergere alcuni aspetti che indicano che la moneta si presenta nella sua veste di strumento utilizzato in ambito economico ma che è intimamente – ontologicamente – legata alle dimensioni della politica e della “giustizia sociale”. Ciò che appare è che il fenomeno monetario fa riferimento ad una relazione ancestrale che lega l’umanità al debito che, in altri termini, può essere definito come la secolarizzazione del nostro rapporto con la mancanza e, quindi, con la necessità di organizzarsi collettivamente per farvi fronte. Le questioni che emergono da questo primo capitolo si rivelano importanti soprattutto all’interno del filone di studi che si dedica al tema delle complementary and community currencies il quale non ha ancora assunto a pieno la centralità della questione della moneta per comprendere la natura delle sperimentazioni monetarie contemporanee, alcune delle quali stanno aprendo domande radicali, problemi fondamentali che non trovano spazio all’interno della scienza economica mainstream. La seconda parte viene dedicata alla ricerca empirica. Si apre con la descrizione del processo che ha portato alla scelta dei due casi studio. Una delle discriminanti è stata la constatazione che il termine moneda social è nato in Argentina sul finire degli anni Novanta, mentre la Spagna è il territorio nazionale con il maggior numero di sperimentazioni monetarie che si presentano attraverso la denominazione moneda social. La ricerca continua attraverso l’esposizione e la descrizione del metodo, cioè degli strumenti reputati funzionali agli scopi della ricerca tra cui spicca uno strumento “multiuso”, costruito ad hoc per svolgere le fasi di raccolta e analisi dei dati, oltre che per svolgere la comparazione tra i casi in modo intuitivo. L'indagine mette in evidenza che le due esperienze sono accomunate da una sensibilità verso le ingiustizie create dal sistema capitalistico e si costituiscono a partire da una postura critica rispetto ad alcune logiche che lo caratterizzano. Nonostante ciò, si rivelano profondamente differenti per ciò che concerne le pratiche, in ogni ambito. Questo è dovuto principalmente alle influenze dei contesti geo-politici in cui sono inserite e anche alle influenze teoriche e ideologiche che vengono scelte per formare la propria identità. Inoltre, emerge che i processi di formazione continua sono un elemento essenziale di fronte alla necessità di costruire sostenibilità ed efficacia. L’ambizione è quella di mostrare il ruolo giocato dallo strumento monetario nelle pratiche del cambiamento sociale che emergono dai casi studio. Ciò che emerge dall’analisi è che l’introduzione di uno strumento monetario proprio non rappresenta una condizione sufficiente per determinare nuove forme di organizzazione dei processi produttivi e distributivi; tuttavia, emerge chiaramente che la moneta è in grado di cristallizzare nuovi tipi di legami sociali – sostenibili nel tempo - se inseriti, in modo coerente, all’interno di un progetto più ampio. Inoltre, risulta fondamentale la ricerca di coerenza tra le pratiche messe in campo ed i valori che ispirano l’esperienza (anche in riferimento alla pratica di istituzione monetaria). Da ultimo, è bene riportare che emerge anche la necessità di riflettere sui differenti modelli economici proposti in seno alle due esperienze, i quali si presentano nella loro alterità ma che, al contempo, non sembrano escludersi a vicenda. Le due esperienze studiate mettono in moto due progetti radicalmente differenti poiché ripensano le pratiche produttive e di scambio a partire da paradigmi lontani tra di loro - ma che non si escludono a vicenda - come quello dell’autogestione del processo produttivo (finalizzato ad ottenere il “giusto beneficio monetario” per raggiungere lo status di vita dignitosa) e quello della cura reciproca (finalizzato a ripristinare le relazioni autentiche di vicinato).
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    Neoruralità, agroecologia e montagna : processi di ricontadinizzazione in Andalusia (Spagna) e Sicilia (Italia)
    (Università della Calabria, 2021-04-01) Ebbreo, Carlotta; Jedlowski, Paolo; Corrado, Alessandra
    Questa tesi ha come oggetto le pratiche neocontadine promosse da soggetti neorurali, ovvero non appartenenti a famiglie agrarie e contadine e con diversi percorsi di vita. L’analisi si iscrive nel dibattito sulle trasformazioni della ruralità, attraverso lo sviluppo di un dialogo tra gli studi sull’agricoltura contadina, la neoruralità e la montagna, e con uno specifico focus sul contesto socio-ecologico della montagna mediterranea. La tesi affronta l’ipotesi della ricontadinizzazione in riferimento alle esperienze di neoruralità, come processo soggettivo - di produzione e trasformazione agraria - nella prospettiva dell’agricoltura contadina, in grado di influire sulla rigenerazione delle aree della montagna mediterranea. La prospettiva dell’agroecologia politica permette di interpretare le forme di accesso alle risorse (risorse economiche, semi, terra, acqua e conoscenza) e i modelli di produzione ed organizzazione agro-alimentare a livello territoriale, promossi dalle esperienze di neorurali neocontadini. Alla luce dello studio della letteratura, la ricerca empirica si focalizza sull’analisi di undici casi studio di unità di produzione neocontadina situati nella Valle di Lecrin-Alpujarras e nella Sierra de Aracena (Andalusia, Spagna) e sulle Madonie (Sicilia, Italia), attraverso una prospettiva comparativa. Dopo la ricostruzione dei contesti territoriali, attraverso l’analisi delle trasformazioni storiche, dei dati socioeconomici e demografici e delle politiche pubbliche, l’analisi dei casi è sviluppata facendo ricorso a metodi tipici della ricerca qualitativa (l’osservazione partecipante, l’intervista non direttiva e l’intervista semi-strutturata). I risultati della ricerca mettono in evidenza la specificità delle montagne mediterranee relativamente alla questione agraria contemporanea, l’influenza delle dinamiche di accesso alle risorse nei processi di “neo-contadinizzazione” (o ricontadinizzazione neorurale) e il ruolo delle rappresentazioni e delle pratiche (neo)rurali rispetto a questi e ai processi di sviluppo territoriale sostenibile dei contesti di montagna.
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    Non dite che non vi avevo avvertito : cosa ci dicono le distopie contemporanee sulle paure del futuro : il caso italiano
    (Università della Calabria, 2020-05-17) Cosentino, Nicola; Jedlowski, Paolo
    Il testo propone una mappatura degli elementi distopici nel panorama letterario italiano, sulla base dei quali si è provato a ragionare su quali siano le principali paure della contemporaneità. La convinzione di partenza è che si possano intercettare i timori di una società studiando il modo in cui sono state raccontate dagli scrittori di narrativa, qui considerati come interpreti attenti della salute emotiva dei propri Paesi e del proprio tempo. Nello specifico, questa tesi prende in esame una porzione circoscritta – e perlopiù inesplorata – di opere letterarie provenienti dal solo panorama editoriale italiano, più precisamente romanzi scritti e pubblicati in Italia, accomunati da a) la presenza non marginale di elementi distopici che ne condizionano l’assetto, orientandoli il più possibile verso la fiction speculativa e la narrazione di altri mondi, altri tempi o di futuri in qualche modo plausibili e generalmente negativi e b) il fatto di essere stati scritti e pubblicati dopo il Duemila, data scelta per indicare, convenzionalmente, un cambio di passo nella storia della rappresentazione del timore e dell’incubo nelle forme narrative. In particolare, l’arco temporale a cui la mia ricerca si riferisce verte sui romanzi pubblicati dal 2008 fino alla chiusura del testo, risalente a ottobre 2019. Lo scopo è quello di verificare quali siano le paure più presenti nell’immaginario italiano, confrontandole ove possibile con quelle espresse, nel corso del tempo, da romanzi e film stranieri che abbiano trattato le medesime tematiche o, pur sempre con connotazioni distopiche, si siano significativamente concentrate su timori diversi. La tesi, nella sua forma testuale, si compone di quattro parti: un’introduzione, una storiografia del distopico, una parte monografica dedicata alle distopie italiane contemporanee e le conclusioni. La prima parte, intitolata Distopia è partecipazione, si suddivide in tre capitoli, ognuno dei quali indaga una tappa nel percorso della distopia: dal germe anti-utopico nelle parodie di Jonathan Swift ai primi viaggi nel tempo, dalle narrazioni anti-coercitive del Novecento alla profonda mutazione del realismo letterario contemporaneo, sempre più tentato dalle possibilità metaforiche offerte da un’ambientazione futuristica. L’ultimo capitolo di questa prima sezione, intitolato Cenni di storia della distopia in Italia, è da ritenersi propedeutico a quanto indagato ed espresso nella seconda parte. Esso costituisce una ricerca di per sé. È un vero e proprio viaggio di riscoperta negli elementi distopici della narrativa italiana, dalla messa in discussione dell’Utopia nelle opere di Ippolito Nievo e Luigi Pirandello ai “Mondi senza” tipici della fantascienza d’evasione e successivamente adottati da Giorgio Scerbanenco, Carlo Cassola e Guido Morselli; dalle fantastiche invenzioni nei racconti di Primo Levi ai temi dell’alterità, dell’alienazione e delle ibridazioni nei romanzi di Lino Aldani e Vittorio Curtoni. Infine, viene dedicato un paragrafo al “caso” Corrado Alvaro, autore di un romanzo distopico (L’uomo è forte, 1938) che anticipa di circa dieci anni le tematiche espresse da George Orwell in 1984 (1949). La sezione monografica è stata suddivisa per tipologie di paure: epidemie e disastri naturali, ovvero apocalissi “fisiche”, divise tra salute dell’uomo e salute della Terra; spersonalizzazione e svalutazione, perdita di valori, di affetti, della memoria; sistemi sovvertiti e alterità: nuovi ordini mondiali, tra denaro, fine del lavoro ed emarginazione. Nella prima categoria rientrano alcuni esempi italiani di climate fiction, ovvero i romanzi che affrontano il discorso sul cambiamento climatico, come Qualcosa, là fuori di Bruno Arpaia, o la possibilità di un collasso energetico, come Le cose semplici di Luca Doninelli. Si tratta, naturalmente, di esempi di storie post-apocalittiche finalizzate a indagare o a denunciare le cause della finis mundi per cause naturali, per poi raccontarne le dure conseguenze. Il capitolo lascia spazio anche al post-apocalittico “decorativo”, ovvero ai romanzi che raccontano un mondo desolato, violento e regredito senza soffermarsi eccessivamente su ragioni alla base del peggioramento: è il caso di Voragine di Andrea Esposito. La seconda categoria fa luce sul terrore, complesso e affascinante, della mortificazione dei sentimenti, dell’età, della memoria, della complessità. Il discorso relativo a questo specifico tipo di svalutazione ruota spesso intorno alla tecnologia e al suo innesto, in termini più o meno invasivi, nella nostra quotidianità. Si oscilla, dunque, dal ruolo del social network come pretesto per la menzogna, l’alienazione e l’esasperazione (Panorama, Tommaso Pincio) al valore del linguaggio e del dialogo umano, coacervo di complessità “vive” e in divenire, confrontato a quello statico, non esperienziale, delle intelligenze artificiali (History, Giuseppe Genna). Viene citato, inoltre, il romanzo di Michele Vaccari Un marito, come esempio di “distopia privata”, ovvero una narrazione in cui si gestisce l’individuo come fosse un intero universo, e la sua tragedia personale quella di un’intera umanità. La terza categoria riprende narrazioni distopiche più vicine a quelle “classiche”, e che focalizzano l’attenzione sul sovvertimento di uno status quo ante che somiglia al presente reale, del lettore. Il protagonista di Cinacittà di Tommaso Pincio si aggira per una Roma ormai abitata e “gestita” da soli cinesi, in cui residenti originari, chiamati nel romanzo “romani” e mai “italiani”, sono considerati una minoranza. Qualcosa di simile accade nei territori razziati dai barbari ne L’uomo verticale di Davide Longo e tra le comuni post-apocalittiche visitate dai documentaristi protagonisti di La festa nera, di Violetta Bellocchio: l’umanità, in questi romanzi, è impegnata in uno scontro tra alterità, tra minoranze disperate, armate l’una di un odio ingiustificato e l’altra della propria paura e del proprio istinto di sopravvivenza. Meno selvaggio il quadro dipinto da Fabio Deotto, con Un attimo prima: nella sua Milano futura, a seguito di una rivoluzione innescata dal Movimento Occupy, non esiste più il denaro e il lavoro è un concetto astratto, molto marginale. Esistono, però, gli emarginati, i “non ammessi” al nuovo sistema. Nello stesso scenario, dunque, si confrontano utopia e distopia. L’intera seconda parte si apre con una premessa in cui si prova a dimostrare la connessione tra le paure degli italiani successive alla crisi del 2008, l’incremento delle narrazioni distopiche e le tematiche in esse espresse, grazie a una mappatura stilata negli anni di ricerca (e che non ha pretese di esaustività) dei romanzi distopici “mainstream” pubblicati in Italia negli ultimi vent’anni e di alcune statistiche relative ai timori più sentiti dalla popolazione. Verrà dimostrato che dati, tempi e timori convergono.
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    A philosophy of radical politics : revolutionary gnosticism and the case of Salafi-Jihadism
    (Università della Calabria, 2020-06-04) Arrigo, Giacomo Maria; Jedlowski, Paolo; Ventura, Alberto; Nawas, John
    L’analisi del fenomeno jihadista si è sovente soffermata su questioni geopolitiche e militari, e quindi prettamente empiriche. La presente tesi, invece, studia il salafismojihadismo, cioè l’ideologia di gruppi come al-Qāʿida e l’autoproclamato Stato Islamico, in un’ottica inedita, adottando la categoria filosofica di gnosticismo rivoluzionario elaborata da Eric Voegelin, Augusto Del Noce e altri importanti pensatori. Le peculiarità di una simile categoria richiede una attenta definizione dei termini in questione. E così la prima parte della tesi è dedicata allo studio della letteratura sul tema dello gnosticismo rivoluzionario, senza tralasciare una comparazione con la gnosi antica del II secolo d.C., a proposito della quale non è possibile parlare di mera equiparazione né di derivazione genetica, arrivando infine a definire lo gnosticismo rivoluzionario nei termini di una vera e propria mentalità, concludendo quindi con la proposta di una definizione analitica del suo contenuto attraverso l’elaborazione del cosiddetto pattern gnostico, una schema composto da sei punti che ne circoscriva l’identità. I sei punti sono anti-cosmismo, tripartizione della storia, immanentizzazione dell’eschaton, gnosi, auto-redenzione politico-rivoluzionaria, e dualismo sociologico. Per provare la validità di un simile schema si sono passate in rassegna le rivoluzioni che la letteratura ha vieppiù considerato gnostico-rivoluzionarie, e quindi la sollevazione degli anabattisti radicali a Münster nel 1534-35, il puritanesimo in Gran Bretagna nel XVII secolo, la parentesi giacobina durante la Rivoluzione francese, il Terzo Reich nazista e il bolscevismo in Unione Sovietica. La seconda parte del presente lavoro prova come anche il salafismo-jihadismo faccia parte della famiglia delle rivoluzioni gnostico-rivoluzionarie, e per dimostrare ciò innanzitutto prende in considerazione singolarmente i termini del binomio, salafismo e jihadismo, mostrando come siano sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro: solo se combinati insieme diventano un cocktail esplosivo. E infatti l’attitudine salafita, che si contraddistingue per una generale volontà di aderire fedelmente all’epoca del Profeta Muḥammad e alle prime tre generazioni dei musulmani, gli al-Salaf al-Ṣāliḥ, assume carattere violento e redentivo oltreché purificatore solo se abbinato al jihadismo, che è invece la volontà di impegnarsi attivamente nella realtà attraverso azioni violente e presumibilmente prescritte da Dio. In questo disegno, l’uomo si sostituisce a Dio, assumendo su di sé il Suo potere redentivo, e, come ha scritto Augusto Del Noce, avviene il processo per cui «la rivoluzione è sostituita alla grazia». L’immanentizzazione dell’eschaton (la realtà ultima), celebre espressione voegeliana, definisce intimamente il progetto politico culturale dello gnosticismo rivoluzionario, che si può riassumere nella distruzione del mondo passato e presente per la costruzione del mondo nuovo, dove il finalmente costituito homo islamicus, destinazione finale dell’intera umanità, sarà impeccabile, nel senso di incapace di peccare. L’analisi è svolta sui documenti prodotti da ideologi di al-Qāʿida e dello Stato Islamico, sulle traduzioni dall’arabo di importanti analisti e accademici, sulle riviste di propaganda islamista direttamente redatte nelle maggiori lingue occidentali, e sui video caricati sul web dai miliziani stessi, senza trascurare uno studio storico intorno alla genesi del salafismo-jihadismo, dal quale emerge che l’incontro/scontro con l’Occidente ha giocato un ruolo chiave. La tesi, pertanto, si inserisce anche fra le strategie di contro-narrazione per contrastare la propaganda jihadista, poiché dimostrare come il salafismo-jihadismo sia essenzialmente una ideologia atea – l’uomo che prende il posto di Dio e il carattere intramondano del progetto di salvezza califfale – significa indebolirla depotenziarla fino al punto di esibirne l’estraneità rispetto alla tradizione spirituale islamica.
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    Identità postmoderne : il gioco identitario nella modernità avanzata
    (Università della Calabria, 2020-02-27) Orrico, Ivan; Jedlowski, Paolo; Parini, Ercole Giap
    L’oggetto di questo lavoro è l’identità personale così come va definendosi nella contemporaneità. Più in particolare, ci si riferisce al modo in cui le persone si definiscono, alle auto-attribuzioni identitarie – essere gay, lesbica, pangender – e al differente peso che a queste attribuzioni viene dato dal soggetto stesso (Sciolla 2010). Come ci ricorda Ėmile Durkheim (1893) la modernità si caratterizzi soprattutto per una pluralizzazione delle appartenenze che è connessa allo sviluppo di società complesse e articolate. Pertanto, il soggetto della modernità è un soggetto immerso in numerose cerchie sociali, il quale diventa individuo proprio in virtù di questo eccesso di socialità che amplifica la percezione della propria irriducibile unicità. I soggetti si riscoprono sempre più individui, secondo un gergo che li porta a inseguire la propria natura di persone uniche e irripetibili, assoggettate all’imperativo di scoprire il proprio (presunto) sé originario. Come ci ricorda Giddens (1991), la modernità con le sue incertezze spinge gli individui a costruire una narrazione di sé stessi che possa tenere in piedi la propria esperienza esistenziale. Il sociologo inglese, richiamandosi agli studi di Laing (1967), sottolinea infatti come la modernità possa minare il senso di sicurezza ontologica degli individui, portandoli a sentirsi insicuri fin dentro le fondamenta del proprio essere. In questo perenne processo auto-poietico è proprio il bisogno di fedeltà a una percepita essenza interiore il motore che spinge le persone a individuarsi: sia scoprendo nuove definizioni, sia cercando di liberarsi da descrizioni restrittive di sé; in una dialettica infinita che è poi la dialettica della soggettività: tra scoprire sé stessi e, contemporaneamente, definirsi. Dunque il processo attraverso il quale il singolo giunge a soggettivare il proprio vissuto sta tutto qui: nel bisogno individualistico di sviscerare e vivere sempre più alla luce del sole aspetti nascosti del proprio Io. Da qui si sviluppa una crescente intolleranza verso le forme di sacrificio nell’esperienza del sé che le singole appartenenze richiedono all’individuo. In quest’ottica, allora, l’identità rappresenta un dispositivo che serve proprio a produrre nuovi significati, nuove definizioni più congrue ai bisogni individuali, viziate tuttavia (come qualsiasi altra identità) da un intrinseco limite rappresentato dai suoi stessi confini. Si determina allora il seguente paradosso: il singolo cerca nuovi specchi all’interno dei quali riflettersi, ma l’immagine di sé che egli ottiene è sempre parziale, incapace di contenere la sovrabbondanza di vita che rappresenta. Secondo l’ipotesi qui sostenuta, allora, i due momenti dialettici del darsi un’identità e di cercare di superarla rispondono in fondo allo stesso bisogno sostanziale di autenticità. Per questo le persone, anche mediante la partecipazione a gruppi, possono avvertire il bisogno di definirsi o liberarsi da “etichette” ritenute restrittive. Eppure anche quando il bisogno di liberarsi di alcuni orpelli identitari raggiunge livelli più avanzati, si determina comunque un bisogno di riconoscimento che assume nuovi nomi, etichette e definizioni; se è vero, come sostiene Axel Honneth (2002), che il riconoscimento è un elemento imprescindibile della soggettività. Ed è proprio quello che si vuole mettere in risalto con questo lavoro: evidenziare come tanto il minuzioso enucleare formule identitarie specifiche, quanto le recenti evoluzioni delle fluid identity nascondano lo stesso bisogno di sperimentare una continuità e una sostanzialità della propria esperienza interiore rispetto a un mondo sempre più problematicamente posto in questione. Per quel che attiene la parte metodologica, la ricerca ha previsto uno studio riguardante gruppi di persone che si definiscono come asessuali, transgender e pan/polisessuali, attraverso una comparazione che mira a ricostruire la differenza dei processi di costruzione/decostruzione identitaria. Lo strumento d’elezione utilizzato è stato l’intervista biografica, attraverso la quale si è giunti a una descrizione sistematica dei processi identitari sinteticamente descritti in questo abstract.
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    Agrifinancialization and transnational agrarian movements
    (Università della Calabria, 2020-04-16) Conti, Mauro; Jedlowski, Paolo; Vitale, Annamaria; Borras, Saturnino M.
    The food price crisis exploded in 2007/2008 with extreme price volatility and high prices, fuelling the Arab spring and other social riots. These extreme price fluctuations have been threatening global food security, increasing the number of undernourished people. The food price crisis shed light on the role of finance in agriculture and the ongoing process of financialization of agriculture. The neoliberal policies promoted by the International Monetary Fund and World Bank, through Structural Adjustment Policies, gave rise to new Transnational Agrarian Movements (TAMs) and the food sovereignty claims. These new TAMs differentiated politically from the existing TAMs and Farmers Organizations that were oriented towards the production of commodities for export and for the international markets. The research problematique addresses the interaction between financialization of agriculture, as a consequence of the end of Bretton Woods agreements, which, reshaping the countryside, also generates the rise of new TAMs claiming for food sovereignty: so the research question is how has the contemporary financialization impacted agriculture and shaped politically the contemporary political orientation of transnational agrarian movements? The research assumes the Arrighian world-system theory, among the different theoretical frameworks, to understand financialization as part of the worldwide economic cycle generating the Bretton Woods crisis and the reshaping of the space of global governance, with a specific focus on agriculture. The dissertation identifies how financialization in agriculture generated a dichotomy in the space of global governance (Intellectual Prop-erty Rights versus Collective Rights), where TAMs strategically entered claiming for food sovereignty and resisting any further penetration of capital in agriculture from within the production process and through policy dialogue for public policies with governments. In the actual financialization phase, the hegemonic powers are trying to generate a new material expansion solving the dichotomy of the global governance of agriculture through the appropriation of world biodiversity, which implies deepening the capital penetration in the internal agroecological frontier, and mainly expand the external frontier including all the biodiversity (crop wild relatives, plants, animal and marine biodiversity) in the capital accumulation system. The new TAMs are opposing this phase of financialization fostering a new material expansion based on agroecology and re-peasantization of the mode of production, which remunerates labour and natural resources rather than capital. The site of the study situated in the UN Rome based Food Agencies, as space strategically selected by TAMs to re-establish the centrality of the Governments in defining the Agriculture policies and regulations, therefore confronting the neoliberal policies and the financialization processes. Therefore, the United Nation Rome Food Agencies are an essential space to understand the TAMs perspective and strategy, in the different processes and discussion that are relevant for the penetration of capital in the countryside and in the control of natural resources, even beyond the Rome processes themselves.
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    I populismi euromediterranei tra ideologia, comunicazione e organizzazione : i casi del M5S e Podemos
    (Università della Calabria, 2020-02-25) Campolongo, Francesco; Jedlowski, Paolo; Giraudi, Giorgio
    La crisi economica del 2008 si configura presto come una crisi politica che muta i sistemi partitici dell’area euromediterranea, con l’affermazione di numerosi new parties definiti come populisti poiché accomunati da caratteristiche molto simili. Pur presentando collocazioni ideologiche molto differenti tra di loro, spesso intrisi di una cultura tecnottimista e in linea con le rivendicazioni del ciclo di mobilitazione transnazionale antiausterità, i nuovi partiti adottano una forte critica della forma partito e della democrazia rappresentativa a favore di una maggiore disintermediazione e di una democrazia maggiormente partecipata e diretta. Il lavoro prova ad approfondire la nozione teorica di populismo e le caratteristiche dei partiti populisti attraverso l’analisi comparata della dimensione ideologica, comunicativa e organizzativa di due partiti outsiders affermatisi dopo la crisi del 2008 nel contesto spagnolo e italiano come Podemos e il Movimento 5 Stelle. Il lavoro adotta una metodologia qualitativa e un approccio diacronico teso ad approfondire le trasformazioni nel tempo dei due partiti sollecitate da una tensione costante tra obiettivi “identitari” e “istituzionali” che sembra attraversare la loro pur breve esistenza.